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D. Colombo

Cass., sez. II, sent. 27 settembre 2023 (dep. 10 ottobre 2023), n. 41131, Pres. Petruzzelis, Rel. Cianfrocca

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*Contributo pubblicato nel fascicolo 11/2023. 

 

1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di cassazione, pronunciandosi in materia di delitti contro il patrimonio culturale (nel dettaglio, si procedeva per l’ipotesi di reato di appropriazione indebita ex art. 518 ter c.p.), ha fornito alcune importanti coordinate ermeneutiche utili a perimetrare la nozione penalmente rilevante di bene culturale, oggetto materiale della maggior parte delle fattispecie incriminatrici confluite nel nuovo Titolo VIII bis del codice penale, introdotto dalla legge 9 marzo 2022, n. 22.

La vicenda processuale su cui si è innestato il giudizio di legittimità riguardava il caso di una persona indagata per il reato di cui all’art. 518 ter c.p., ipotizzato in relazione all’indebita appropriazione di beni di presumibile interesse archeologico; beni che, conseguentemente, erano stati sottoposti a sequestro probatorio ex art. 253 c.p.p.

Avverso il rigetto dell’istanza di riesame era stato proposto ricorso per cassazione, con cui l’indagato aveva lamentato – tra l’altro – l’illegittimità del provvedimento impugnato per violazione dell’art. 253 c.p.p. in relazione alla ritenuta sussistenza del fumus commissi delicti. In particolare, il ricorrente aveva evidenziato che i beni oggetto di ablazione non erano mai stati attinti da un provvedimento amministrativo adottato ai sensi dell’art. 13 d.lgs. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), vale a dire da una dichiarazione formale di interesse culturale.

Investiti della questione, i giudici di legittimità, dando continuità a un orientamento già consolidatosi in relazione alla normativa vigente prima dell’emanazione della l. 22/2022[1], hanno ribadito la propria adesione alla concezione c.d. sostanzialistica, in forza della quale il bene giuridico protetto dalle disposizioni del nuovo Titolo VIII bis c.p. andrebbe individuato nel patrimonio culturale reale, ossia in quei beni tutelati in virtù del loro intrinseco valore culturale, indipendentemente dal previo e formale riconoscimento dello stesso da parte delle autorità competenti.

La pronuncia in esame restituisce dunque una chiara presa di posizione della Suprema Corte intorno al dibattito su cosa debba intendersi, in prospettiva penalistica, per bene culturale; dibattito che, anche dopo l’entrata in vigore della riforma, è rimasto vivissimo e in merito al quale la soluzione dei giudici di legittimità potrebbe non riuscire a sopire le vivaci obiezioni continuamente sollevate dai sostenitori della tesi rivale.

 

2. Prima di ripercorrere i termini della questione controversa e di illustrare l’orientamento a cui la sentenza qui esaminata ha ritenuto di aderire, pare opportuno soffermarsi, pur in estrema sintesi, sui tratti salienti della riforma dei reati contro il patrimonio culturale in relazione all’individuazione del bene giuridico protetto dalle fattispecie penali e, di riflesso, dell’oggetto materiale delle condotte incriminate.

 

2.1. La l. 22/2022 – che ha introdotto nel codice penale un nuovo Titolo VIII bis, contenente incriminazioni poste a tutela del patrimonio culturale, in parte corrispondenti a figure delittuose già esistenti nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, in parte inedite – è stata adottata in ottemperanza all’impegno assunto dall’Italia mediante la sottoscrizione della Convenzione di Nicosia del Consiglio di Europa, il cui scopo dichiarato è il rafforzamento della tutela del patrimonio culturale mediante l’impiego del diritto penale.

La Convenzione di Nicosia offre, all’art. 2, una propria definizione di cultural property (mutuata pressoché pedissequamente dalla Convenzione UNESCO del 1970), statuendo che, ai sensi della Convenzione, con tale espressione si intende l’insieme di quei beni che siano «classified, defined or specifically designated […] as being of importance for archaeology, prehistory, ethnology, history, literature, art or science».

 

2.2. Il legislatore italiano, invece, nonostante la centralità, nell’ambito dell’intervento novellatore operato dalla l. 22/2022, del riferimento al patrimonio culturale, non ha autonomamente definito ‘ai fini penali’ cosa debba intendersi per bene culturale, benché si tratti di elemento normativo costitutivo del fatto tipico per quasi tutti i reati inseriti nel Titolo VIII bis c.p.[2]

È stato così rimesso all’interprete il gravoso compito di delineare la nozione di bene culturale penalmente rilevante, con la conseguente necessità di fare riferimento alla disciplina all’uopo prevista ‘ai fini amministrativi’ dall’art. 2 d.lgs. 42/2004.

In linea di massima, alla luce delle disposizioni contenute nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, si possono distinguere tre macro-categorie di beni culturali: i) beni culturali ex lege (indicati all’art. 10 co. 2 d.lgs. 42/2004), di proprietà pubblica e assimilata, per i quali non si richiede alcun accertamento circa la sussistenza dell’interesse culturale; ii) beni culturali presuntivi (individuati dagli artt. 10 co. 1 e 4 e 12 co. 1 d.lgs. 42/2004), di proprietà pubblica e assimilata, la cui culturalità è presunta solo relativamente, poiché può essere esclusa in caso di esito negativo del procedimento di verifica dell’interesse culturale; iii) beni in proprietà privata (indicati all’art. 10 co. 3 d.lgs. 42/2004) oggetto di positiva dichiarazione di interesse culturale ai sensi dell’art. 13 d.lgs. 42/2004[3].

 

2.3. La dottrina penalistica si è interrogata a lungo sulla questione dell’applicazione formale o sostanziale della nozione extrapenale di bene culturale[4], tematica su cui il legislatore della riforma ha mantenuto un silenzio sibillino.

Secondo alcuni[5], le fattispecie incriminatrici confluite nel codice penale tutelerebbero il patrimonio culturale formale, nel senso che la protezione approntata sarebbe circoscritta ai soli beni culturali individuati come tali dalla disciplina amministrativa: beni culturali ex lege, beni culturali presuntivi per cui non sia intervenuto accertamento negativo sull’interesse culturale, beni privati dichiarati di interesse culturale. Esulerebbero invece dall’ambito di tutela i beni privati sforniti di dichiarazione di interesse culturale e l’arte contemporanea.

La necessità di sposare la tesi formale discenderebbe, in particolare, dall’esigenza di certezza e di conoscibilità del precetto penalistico, che dovrebbe coniugarsi ad ogni pulsione incriminatrice.

Secondo altri[6], invece, la tutela penale del patrimonio culturale riguarderebbe tutti quei beni di valore intrinsecamente culturale, a prescindere dall’esistenza di una dichiarazione amministrativa in tal senso. In tal modo, la protezione penale sarebbe accordata anche ai beni privati di interesse culturale sprovvisti della relativa dichiarazione amministrativa, nonché all’arte contemporanea.

I sostenitori di tale tesi (c.d. del patrimonio culturale sostanziale) osservano che, in assenza di un esplicito richiamo, da parte delle fattispecie penali, alle definizioni fornite dal d.lgs. 42/2004, al giudice sarebbe riconosciuto un maggior margine interpretativo, così da poter estendere l’ambito di tutela penale a un più ampio ventaglio di beni dall’intrinseco valore culturale. In tal modo – si argomenta – si appresterebbe una protezione più adeguata al patrimonio culturale effettivo, senza dover dipendere dalle lungaggini (in particolare con riferimento ai beni culturali di proprietà privata) che sovente ammorbano il procedimento amministrativo di accertamento dell’interesse culturale.

3. Nella pronuncia in esame la Corte di cassazione, come anticipato, ha aderito alla tesi sostanziale.

I giudici di legittimità, in particolare, ritengono di poter dare continuità all’orientamento già consolidatosi in relazione alla disciplina previgente, che aveva – appunto – adottato un approccio marcatamente sostanziale. Nello specifico era stato affermato – con riferimento al reato di impossessamento illecito di beni culturali (già art. 176 d.lgs. 42/2004, oggi art. 518 bis co. 1 c.p.) – che non è richiesto, quando si tratti di beni appartenenti allo Stato, l’accertamento dell’interesse culturale, né che i medesimi presentino un particolare pregio o siano qualificato come culturali da un provvedimento amministrativo, essendo invece sufficiente che la culturalità sia desumibile dalle caratteristiche oggettive dei beni[7], quali la tipologia, la localizzazione, la rarità o altri analoghi criteri, e la cui prova può desumersi o dalla testimonianza di organi della pubblica amministrazione o da una perizia disposta dall’autorità giudiziaria[8].

La Suprema Corte richiama inoltre una pronuncia resa in relazione alla fattispecie di illecita esportazione di cose di interesse artistico (già art. 174 d.lgs. 42/2004, oggi art. 518 undecies c.p.), applicata non solo al patrimonio culturale dichiarato, ma anche a quello reale, essendo stato ritenuto sufficiente che il bene stesso presenti un oggettivo interesse culturale.

L’indirizzo sostanziale troverebbe un avallo normativo, secondo i giudici di legittimità, nella formula di chiusura contenuta nell’art. 2 d.lgs. 42/2004 (in particolare, il riferimento alle «altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà»), che consentirebbe di ravvisare il bene giuridico protetto dalle disposizioni sui beni culturali ed ambientali non soltanto del patrimonio storico-artistico-ambientale dichiarato, ma anche in quello reale, ovvero in quei beni protetti in virtù del loro intrinseco valore, indipendentemente dal previo riconoscimento da parte delle autorità competenti[9].

*  *  *

4. All’esito della ricognizione del contenuto della sentenza qui segnalata, sia consentito di appuntare alcune brevissime considerazioni.

4.1. In primo luogo, va rilevato che, nel caso di specie, l’applicazione della misura cautelare reale avrebbe potuto essere disposta seguendo una diversa via normativa, che avrebbe consentito l’ablazione dei beni de quibus senza dover prendere posizione circa la natura formale o sostanziale del requisito della culturalità della res oggetto di appropriazione indebita.

Per individuare quale sia la diversa via a cui si è fatto cenno, occorre soffermarsi sulle novità introdotte in tema di confisca di beni culturali dalla l. 22/2022.

L’art. 518 duodevicies co. 1 c.p. prevede una peculiare ipotesi di confisca obbligatoria (in relazione alla quale, dunque, ben potrebbe essere disposto il sequestro preventivo ai sensi dell’art. 321 co. 2 c.p.p.); segnatamente, la norma in parola prescrive che «il giudice dispone in ogni caso la confisca delle cose indicate all’articolo 518 undecies, che hanno costituito l’oggetto del reato, salvo che queste appartengano a persona estranea al reato».

Di assoluto rilievo, in sede di interpretazione della norma, è la circostanza che l’art. 518 undecies c.p. (che punisce, in sostanziale continuità con l’art. 174 d.lgs. 42/2004, l’uscita o esportazione illecite di beni culturali) operi un espresso riferimento non solo ai beni culturali, ma anche, più in generale, a tutte le «cose di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, bibliografico, documentale o archivistico o altre cose oggetto di specifiche disposizioni di tutela ai sensi della normativa sui beni culturali».

Ora: mentre l’art. 174 co. 3 d.lgs. 42/2004, in tema di confisca, si riferiva esclusivamente al reato previsto nel medesimo articolo (uscita o esportazione illecite di beni culturali), diversamente la confisca prevista dall’art. 518 duodevicies c.p. è suscettibile di applicazione per tutti i delitti previsti in materia di tutela del patrimonio culturale. Infatti, il riferimento all’art. 518 undecies c.p. è operato quoad rem, vale a dire al solo fine di individuare l’oggetto su cui cade la misura ablatoria, ma con riferimento a tutti i delitti del nuovo Titolo VIII bis c.p.

Come è stato osservato, l’innovazione apportata con la riforma è quanto mai opportuna, in quanto consente di risolvere il problema, avvertito da parte della dottrina[10], della disparità di trattamento, dal punto di vista delle misure ablative, tra beni culturali oggetto di illecita esportazione e beni culturali oggetto di impossessamento illecito (già art. 176 d.lgs. 42/2004, oggi art. 518 bis c.p.) o ricettazione comune ex art. 648 c.p., prima della riforma oggetto di confisca solo facoltativa[11].

Ad ogni modo, poiché il riferimento dell’art. 518 duodevicies c.p. all’art. 518 undecies c.p. deve essere interpretato alla stregua di specifica individuazione normativa dei beni assoggettabili a confisca (i.e. i beni di interesse culturale, quand’anche non ancora dichiarati beni culturali), è evidente come ciò inibisca sul nascere eventuali discussioni circa la riconducibilità della res da ablare al patrimonio culturale formale o sostanziale. Infatti, è la norma stessa ad abbracciare espressamente la soluzione sostanziale, e dunque, per poter disporre la confisca, sarà sufficiente che la cosa presenti un semplice interesse culturale (artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, bibliografico, documentale o archivistico), pur in assenza di una dichiarazione amministrativa in tal senso. Peraltro, attesa la natura eminentemente recuperatoria di tale ipotesi ablatoria, la confisca potrà essere applicata anche in assenza di un provvedimento di condanna, purché sia provata la materialità del fatto e sempreché il bene medesimo non appartenga a persona estranea al reato[12].

 

4.2. Al di là di queste considerazioni di carattere generale e focalizzando l’attenzione, invece, sugli argomenti spesi dai giudici di legittimità nella pronuncia in esame, non ci si può esimere dal rilevare alcune possibili obiezioni alla soluzione accolta convintamente dalla Suprema Corte.

Occorre tuttavia preliminarmente avvertire che la tematica affrontata dalla Corte è, invero, di notevole spessore e richiederebbe – tanto più alla luce delle nette conclusioni cui perviene il giudicante – approfondimenti non limitati a sintetiche osservazioni come quelle che seguono, da intendere pertanto quali meri spunti di riflessione.

 

4.2.1. In primo luogo, occorre rilevare come, da una visione di insieme delle disposizioni contenute nel Titolo VIII bis c.p., emergano elementi letterali che, parrebbe, militano a favore di una concezione formale del sintagma “bene culturale”. Segnatamente, già da una rapida lettura delle disposizioni si può facilmente riscontrare che l’oggetto materiale delle fattispecie incriminatrici poste a tutela del patrimonio culturale non è individuato dal legislatore sempre allo stesso modo. Nel dettaglio, due disposizioni non operano un riferimento (esclusivo) ai beni culturali quale oggetto di tutela: si tratta del già richiamato art. 518 undecies c.p. (che punisce l’uscita o esportazione illecite non solo di beni culturali, ma anche di cose di interesse artistico, storico, etnoantropologico, bibliografico, documentale, archivistico o altre cose oggetto di specifica tutela) e dell’art. 518 quaterdecies c.p. (che punisce la contraffazione di «un’opera di pittura, scultura o grafica ovvero un oggetto di antichità o di interesse storico o archeologico»).

Orbene, si potrebbe sostenere che, in virtù del canone ermeneutico ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, laddove il legislatore abbia inteso assicurare la tutela penale ai beni sostanzialmente culturali, abbia conseguentemente modellato in tal senso l’oggetto materiale della norma incriminatrice, così come avvenuto nell’alveo dell’art. 518 undecies c.p. Con la conseguenza, pertanto, che il silenzio serbato altrove (rectius: il laconico impiego della locuzione “bene culturale”) andrebbe interpretato come mero richiamo alla disciplina amministrativa prevista dal d.lgs. 42/2004 e, dunque, come riferimento al patrimonio culturale formale.

 

4.2.2. In secondo luogo, confrontando le due impostazioni teoriche che si contendono il campo (quella sostanziale e quella formale), ci si può facilmente avvedere di come, aderendo alla seconda, rispetto all’ambito di tutela penale accordata dalla tesi sostanziale esulino, in fin dei conti, solo i beni privati per cui non sia intervenuta la dichiarazione di culturalità, da un lato, e l’arte contemporanea, dall’altro lato.

Se così è, non pare fuori luogo interrogarsi sull’eventuale irrazionalità, lamentata nei confronti della concezione formale, dell’esclusione di tali categorie di beni dalla protezione offerta dallo strumento penale. Invero, a noi sembra che, in relazione a tali tipologie di res, l’applicazione della severa disciplina prevista dagli artt. 518 bis e ss. c.p. manifesterebbe una reazione sanzionatoria probabilmente sproporzionata rispetto alle istanze di tutela che soggiacciono all’introduzione del Titolo VIII bis c.p.

Si pensi, in primis, all’ipotesi in cui vengano in rilievo beni privati, di interesse culturale ma sprovvisti della relativa dichiarazione ex art. 13 d.lgs. 42/2004, custoditi in luoghi non aperti al pubblico. Ora: se la ratio della tutela del patrimonio culturale va ricercata nella funzione identitaria e di coesione sociale da esso esplicata – funzione che ha, quale imprescindibile presupposto, la fruibilità collettiva dei beni culturali[13] –, allora la protezione dei beni privati di interesse culturale, pur in assenza di dichiarazione di culturalità, ben potrebbe giustificarsi in relazione a quelle ipotesi di reato imperniate sul pericolo di perdita del bene o della sua funzione ideale (illecita esportazione, distruzione, deterioramento, etc.). Viceversa, tuttavia, la ratio dell’inasprimento sanzionatorio rispetto alle fattispecie comuni si smarrirebbe laddove vengano in rilievo ipotesi di illecita circolazione delle res culturali (furto, appropriazione indebita, ricettazione, etc.). Infatti, se la predisposizione di una tutela di matrice penale in relazione a tali fattispecie, quando queste abbiano ad oggetti beni culturali privati, si giustifica in virtù dell’interesse dell’ordinamento ad avere contezza, in prospettiva chiaramente futura, dell’attuale collocazione delle cose che costituiscono il patrimonio culturale, tale interesse evidentemente avvizzisce laddove la condotta lato sensu sottrattiva abbia ad oggetto beni celati alla cognizione dello Stato (poiché non è intervenuta la dichiarazione di accertamento della culturalità del bene), per il quale è conseguentemente indifferente – da un punto di vista di potenziale esplicazione della funzione culturale del bene – chi ne sia l’attuale e materiale detentore[14].

Quanto, poi, alla complessa tematica relativa alla tutela da riconoscere all’arte contemporanea, è appena il caso di richiamare le considerazioni svolte da accorta dottrina, secondo cui l’esclusione dell’arte contemporanea dal fuoco della tutela penale non sarebbe irragionevole, attese le notevoli «difficoltà di attribuire o negare un reale rilievo culturale a beni per i quali non abbia ancora potuto sedimentarsi una valutazione tra gli esperti e nella società»[15].

 

4.3. Due ultime battute su una questione che, benché estranea al tema affrontato, riguarda da vicino il reato in relazione al quale si è instaurato il procedimento infine giunto all’attenzione della Corte, vale a dire l’appropriazione indebita di beni culturali (art. 518 ter c.p.).

Focalizzando l’attenzione sul trattamento sanzionatorio previsto dalla fattispecie de qua, ci si può avvedere facilmente di come la stessa preveda, inopinatamente, una cornice edittale (reclusione da uno a quattro anni e multa da 516 euro a 1.500 euro) più tenue rispetto a quella stabilita per la fattispecie comune di appropriazione indebita ex art. 646 c.p. (reclusione da due a cinque anni e multa da 1.000 euro a 3.000 euro).

L’evidente irrazionalità del differente trattamento sanzionatorio – presumibilmente dovuto a una mera svista, considerando che nelle more dell’iter legislativo di approvazione della l. 22/2022 erano state elevate le pene del delitto di appropriazione indebita – potrebbe fondare questioni di legittimità costituzionale ex artt. 3 e 27 Cost. dell’art. 646 c.p., in forza della manifesta irragionevolezza e sproporzione del trattamento sanzionatorio, assumendo quale tertium comparationis lo stesso art. 518 ter c.p.[16]

Analogo discorso vale per l’ipotesi in cui l’appropriazione indebita del bene culturale sia commessa da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio preposto alla conservazione o alla tutela di beni culturali mobili o immobili. Tale evenienza configura la circostanza aggravante di cui all’art. 518 sexiesdecies co. 1 n. 2 c.p., in forza del quale la pena è aumentata da un terzo alla metà. Conti alla mano, in un simile caso la cornice edittale del delitto di appropriazione indebita di beni culturali diverrebbe pari – con riferimento alla sola pena detentiva – a un minimo di un anno e quattro mesi di reclusione e a un massimo di sei anni di reclusione.

Tale forbice edittale è evidentemente più mite rispetto a quella approntata dall’art. 314 c.p. per il reato di peculato (reclusione da quattro anni a dieci anni e sei mesi), di cui tuttavia l’ipotesi di cui all’art. 518 ter c.p., aggravato ex art. 518 sexiesdecies co. 1 n. 2 c.p., costituisce senza timore di smentita una ipotesi speciale. Anche in questo caso, dunque, potrebbero sorgere dubbi (invero ben fondati) di legittimità costituzionale dell’art. 314 c.p., punito più severamente del reato di appropriazione indebita di beni culturali commessa dal pubblico ufficiale, benché quest’ultima fattispecie sia posta a tutela di un ulteriore bene giuridico (il patrimonio culturale).

È dunque quanto mai urgente che il legislatore intervenga sulle cornici edittali dei reati in parola, rimodulando il trattamento sanzionatorio previsto in modo da ricondurre a coerenza sistematica il complesso intreccio normativo venutosi a creare.

 

 

[1] Trova conferma, così, il pronostico effettuato dalla dottrina all’indomani dell’emanazione della l. 22/2022, secondo cui sarebbe stato probabile «un effetto ‘inerziale’, di attrazione e trascinamento di tutte le fattispecie del Titolo VIII bis verso la soluzione ermeneutica prevalente con riferimento alle pregresse fattispecie codicistiche di danno a beni culturali – optando quindi per ritenere l’applicabilità di tendenzialmente tutti i delitti del nuovo Titolo a tutti i beni culturali ‘reali’» (così A. Visconti, Problemi e prospettive della tutela penale del patrimonio culturale, Giappichelli, Torino, 2023, p. 119).

[2] L’astensione del legislatore dal compito di fornire una definizione di bene culturale valida ai fini penali è stata recepita tendenzialmente negativamente dalla dottrina: v. C. Iagnemma, I nuovi reati inerenti ai beni culturali. Sul persistere miope di una politica criminale ricondotta alla deterrenza punitiva, in Arch. pen., 1/2022, p. 7; A. Visconti, La repressione del traffico illecito di beni culturali nell’ordinamento italiano. Rapporti con le fonti internazionali, problematiche applicative e prospettive di riforma, in La legisl. pen., 19 dicembre 2021, p. 63; M. Trapani, Riflessioni a margine del sistema sanzionatorio previsto dal c.d. codice dei beni culturali, in E. Battelli – B. Cortese – A. Gemma – A. Massaro (a cura di), Patrimonio culturale. Profili giuridici e tecniche di tutela, Roma, 2017, p. 245; L. D’Agostino, Dalla “vittoria di Nicosia” alla “navetta” legislativa: i nuovi orizzonti normativi nel contrasto ai traffici illeciti di beni culturali, in Dir. pen. cont., 1/2018, p. 89; A. Natalini, Riforma ipertrofica e casistica senza una norma definitoria, in Guida al diritto, 13/2022, p. 28. In particolare, viene – condivisibilmente – rilevato come l’assenza di una norma definitoria rechi ulteriore detrimento alle esigenze di determinatezza e rimproverabilità, da sempre particolarmente avvertite in materia di reati contro il patrimonio culturale. Peraltro, è appena il caso di evidenziare come l’introduzione di una definizione di bene culturale valida ai fini penali avrebbe eliminato le problematiche in punto di errore ricadente sulla culturalità del bene (art. 47 co. 3 c.p.): sul tema, cfr. A. Visconti, La repressione del traffico illecito di beni culturali nell’ordinamento italiano. Rapporti con le fonti internazionali, problematiche applicative e prospettive di riforma, in La legisl. pen., 19 dicembre 2021, pp. 49-52; V. Manes, La tutela penale, in C. Barbati – M. Cammelli – G. Sciullo (a cura di), Diritto e gestione dei beni culturali, Bologna, 2011, p. 309; C. Perini, Itinerari di riforma per la tutela penale del patrimonio culturale, in La legis. pen., 19 febbraio 2018, p. 4; A. Massaro, Illecita esportazione di cose di interesse artistico: la nozione sostanziale di bene culturale e le modifiche introdotte dalla legge n. 124 del 2017, in Dir. pen. cont., 5/2018, p. 124, nonché, volendo, D. Colombo, Osservazioni in tema di furto di beni culturali (art. 518-bis c.p.), in Aedon, 1/2023.

Aveva invece ritenuto da evitare l’introduzione di una specifica norma definitoria C. Sotis, La tutela penale dei beni culturali mobili. Osservazioni in prospettiva de iure condendo, in Aa. Vv., Circolazione dei beni culturali mobili e tutela penale: un’analisi di diritto interno, comparato e internazionale, Milano, 2015, p. 134, per scongiurare sovrapposizioni problematiche con le definizioni già previste dal d.lgs. 42/2004. Nello stesso senso, dopo la riforma, G.P. Demuro, I delitti contro il patrimonio culturale nel Codice penale: prime riflessioni sul nuovo titolo VIII-bis, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 1/2022, pp. 21-22.

[3] Cfr. sul punto la precisa ricostruzione di L. Ponzoni – F. Dimaggio, I reati contro il patrimonio culturale e l’aggiornamento dei modelli 231, in Giur. pen. web, 2023, 4.

[4] I termini della questione sono ben illustrati da P. Carpentieri, La tutela penale dei beni culturali in Italia e le prospettive di riforma: i profili sostanziali, in S. Manacorda – A. Visconti (a cura di), Beni culturali e sistema penale, Milano, 2013, p. 35; v. anche S. Manacorda, La circolazione illecita dei beni culturali nella prospettiva penalistica: problemi e prospettive di riforma, in Aa. Vv., Circolazione dei beni culturali mobili e tutela penale: un’analisi di diritto interno, comparato e internazionale, Milano, 2015, p. 21, nonché, già a suo tempo, F. Mantovani, Lineamenti della tutela penale del patrimonio artistico, in Riv. it. dir. proc. pen, 1976, p. 64.

[5] Ex multis A. Visconti, Problemi e prospettive della tutela penale del patrimonio culturale, Giappichelli, Torino, 2023, passim; L. Troyer – M. Tettamanti, Le nuove norme in materia di reati contro il patrimonio culturale ed il loro impatto sulla responsabilità degli enti ex d.lgs. 231/2001, in Riv. dott. commercialisti, 2/2022, p. 295.

[6] V. per tutti G.P. Demuro, I delitti contro il patrimonio culturale nel Codice penale: prime riflessioni sul nuovo titolo VIII-bis, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 1/2022, pp. 20-21.

[7] In tal senso, la Corte richiama Cass., sez. III, 16 luglio 2020, n. 24988; Cass., sez. II, 18 luglio 2014, n. 36111; Cass., sez. III, 15 maggio 2014, n. 24344; Cass., sez. III, 7 luglio 2011, n. 41070.

[8] Così Cass., sez. III, 28 giugno 2007, n. 35226. In verità, il riferimento alla fattispecie di cui all’art. 174 d.lgs. 42/2004 pare inconferente rispetto alla questione dibattuta, dacché tale disposizione non individua quale oggetto di tutela i beni culturali, bensì – per espressa indicazione normativa – più precisamente le «cose di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, bibliografico, documentale o archivistico». In altri termini, qui è la stessa norma a dare rilievo a tutti i beni di interesse culturale, indipendente dal previo riconoscimento in tal senso da parte dell’autorità amministrativa.

[9] Cass., sez. III, 18 ottobre 2012, n. 45841; Cass., sez. III, 15 febbraio 2005, n. 21400.

[10] P. Cipolla, Sulla obbligatorietà della confisca di beni culturali appartenenti allo Stato illecitamente esportati, in Giur. mer., 9/2011, pp. 2202 ss.

[11] A. Visconti, La repressione del traffico illecito di beni culturali nell’ordinamento italiano. Rapporti con le fonti internazionali, problematiche applicative e prospettive di riforma, in La legisl. pen., 19 dicembre 2021, p. 59.

[12] Afferma che l’ipotesi di confisca in parola costituisce una misura recuperatoria di carattere amministrativo, da ultimo, Cass., sez. III, 3 marzo 2023, n. 9101, con nota di D. Colombo, La confisca di beni culturali in caso di estinzione del reato per decorso del termine di prescrizione, in Giur. pen. web, 2023, 3.

[13] Cfr. sul punto G.P. Demuro, I delitti contro il patrimonio culturale nel Codice penale: prime riflessioni sul nuovo titolo VIII-bis, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 1/2022, p. 4, il quale evidenzia la funzione ideale svolta dai beni culturali, e come tale funzione rischi di «essere vanificata quando il substrato stesso sia reso indisponibile alla fruizione collettiva, e che ne rappresenta l’essenza: culturalità significa (e necessita di) massima apertura e fruibilità».

[14] Sul punto, si consenta il rinvio a D. Colombo, Osservazioni in tema di furto di beni culturali (art. 518-bis c.p.), in Aedon, 1/2023. In senso analogo A. Visconti, Problemi e prospettive della tutela penale del patrimonio culturale, Giappichelli, Torino, 2023, p. 235.

[15] Così A. Visconti, Problemi e prospettive della tutela penale del patrimonio culturale, Giappichelli, Torino, 2023, p. 390.

[16] Illustra compiutamente il problema A. Visconti, Problemi e prospettive della tutela penale del patrimonio culturale, Giappichelli, Torino, 2023, pp. 246-247. La dissonanza sanzionatoria è evidenziata anche da G.P. Demuro, I delitti contro il patrimonio culturale nel Codice penale: prime riflessioni sul nuovo titolo VIII-bis, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 1/2022, p. 10.

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